Autor: giorgiodieffe
jueves, 23 de marzo de 2006
Sección: Roma y Grecia en Celtiberia
Información publicada por: giorgiodieffe
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POPOLAMENTO ANTICO ED IMMAGINARIO COLLETTIVO


LA VISIONE LATINO - ROMANA DELLA QUESTIONE RELATIVA AL POPOLAMENTO, APPLICATA ALLE PROPRIE GENTI ED A QUELLE ESTRANEE


Il "nomen Latinum" (in accezione moderna ed ampia : “popolo latino”)

All’interno del Lazio antico, più "populi" (in accezione antica e ristretta) svilupparono coscienza e volontà di appartenere ad un unico "nomen Latinum". Questo fu un insieme, nel quale, secondo Catalano (CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, pp. 216-234) , non contò tanto la “coesione genetica e razziale”, quanto piuttosto:

1) l’uso della stessa lingua (il latino)
2) la partecipazione ai medesimi “culti federali”
3) la discendenza da un capostipite mitico (pater), chiamato "Pater Indiges" (identificato, a volte con il sole o con Latino, che del sole era nipote, attraverso la “ligure” Circe oppure con Enea), il culto del quale era praticato a Lavinio.

I miti circa le origini del "nomen" avevano funzione sociale e politica, esattamente come accadeva in Grecia o in Etruria, nelle quali la creazione di un mito comune delle origini, in cui riconoscersi, era funzionale alla coesione e all’aggregazione interna di una comunità o, in altri casi, alla coesione politica fra due o più comunità diverse (per il mondo greco cfr. D. MUSTI, Sull’idea di "suggevneia" in iscrizioni greche, in “Annali della Scuola Normale di Pisa” 32, 1963, pp.225 ss.; si veda un interessantissimo il testo epigrafico edito da: J. BOUSQUET, La stèle des Kythéniens au Létôon de Xanthos, in “Revue des Etudes Grecques” 101, 1988, pp. 12-53; per gli Etruschi, cfr. D. BRIQUEL, Les Pélasges en Italie, Roma 1984).


La nozione di "populus" romanus ed il rapporto con altri "populi" (in accezione “ristretta”)

La parola latina "populus" deriva da una radice mediterranea *poplo = “crescita”. Quindi, essa possiede inizialmente un senso quantitativo (G. Devoto, Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, le Monnier, Firenze 1968).
All’interno del "nomen Latinum" si consideravano esistenti più "populi": ad es. il "populus romanus", il "populus albanus", ecc.
Ogni popolo faceva, quindi, capo ad un insediamento stabile: erano un gruppo quantitativo di persone, che agivano, decidevano, si rapportavano con altri a partire da questo insediamento (tenendolo come punto di riferimento centrale).

Man mano che i singoli "populi latini" si strutturarono come entità politiche ed urbane indipendenti e maturarono la loro individuazione, soprattutto nel corso delle guerre con Roma, vennero a definirsi sempre meglio le personalità degli antenati propri di ciascuna città, quali: “Romolo”, dal quale sarebbero discesi i Romani; “Odisseo”, antenato dei Tusculani e dei Prenestini; “Cavillo” antenato dei Tiburtini [MASTROCINQUE A. (Univ. Di Verona), Romolo. La fondazione di Roma tra storia e leggenda, Este 1993. Sulla "civitas romana" in rapporto alle primitive comunità del Lazio cfr. CATALANO, op. cit.].




La nozione di civitas ed il senso di patria comune


Il nome latino "civitas" derivò da radice *kei- = “insediarsi”. L’ampliamento *kei-v avvenne per rimarcare un luogo che rivestiva “valore affettivo”, tanto è vero che nel sanscrito çeva = “caro” (G. Devoto, op. cit.).

I Romani antichi, quando parlarono per la prima volta di civitas si riferirono, quindi, all’insediamento chiamato Roma, come “città cara al loro cuore/patria affettiva”. I veri Romani si auto-considerarono "cives" ovvero “uomini della civitas” (luogo, contemporaneamente, fisico e sentimentale, se non religioso, perché nel medesimo vissero gli antenati, che continuarono a essere venerati dai discendenti, dopo la morte).

Dietro alla "civitas", quindi, si scorgeva il mito della "syngeneia", cioè di una parentela fra tutti i cittadini, della quale ci si voleva e doveva autoconvincere. Questo spiega lo sviluppo delle leggende sui capostipiti, Romolo e i suoi compagni, in particolare, ma anche il culto dei "Lares publici", gli antenati comuni di tutti i Romani (cf. : A. MASTROCINQUE, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, capp. VIII-IX).


La nozione di gens: prima crisi della civitas


Poiché, man mano che passò il tempo, Roma inglobò molte persone e famiglie di provenienza la più disparata, il concetto di "civitas" singenica mostrò le prime crepe.

Per superarle, venne elaborata la leggenda dei cento "patres", che sarebbero stati compagni di Romolo al momento della fondazione della città. Da questi sarebbero discese le "gentes patritiae romuleae" (Livius 1.8.7; Dionysius Halicarnassensis 2.12; Velleius Paterculus 1.9.6).

Ma, poiché, anche in tal modo non sarebbero rientrate tutte le "gentes" romane, lasciando fuori quelle di origine sabina, fu aggiunta la leggenda di Tito Tazio e dei suoi compagni (Sulle "gentes" sabine, che esercitarono la loro pressione su Roma nel V secolo, più ancora che in età regia, cfr. J. POUCET, Les Sabins aux origines de Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.1, Berlin-New York 1972, pp.99-101).

La "gens", quindi, avrebbe dovuto essere, originariamente, una entità “subcivitanea”, sempre costituita sulla base del riferimento mitico ad antenati comuni a un gruppo (maggiormente ristretto) di famiglie. Cio è tanto più vero, se si pensa che "gens" deriva dalla radice i-e *gen- = “generare”, che trova paralleli interessanti nel greco ed anche nell’inglese "kind" = “genere” e nel tedesco "Kind" = “bambino” (frutto della generazione).

Sulla formazione delle "gentes" romane ebbe profonda influenza il sistema sociale etrusco. Presso le comunità etrusche dell’Italia centrale, a partire dall’VIII secolo, l’ascesa economica e sociale dei gruppi gentilizi dominanti fu accompagnata dall’affermarsi dell’uso del nome gentilizio, funzionale alla conservazione di un’eredità economica e morale all’interno delle famiglie e delle gentes [Cfr. H. RIX, Zur Ursprung des römisch-mittelitalischen Gentilnamensystems, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 700-748; G. COLONNA, Nome, gentilizio e società, in Studi Etruschi 45, 1977, pp.175-192; cfr. L.-R. MENAGER, Systèmes onomastiques, structures familiales et classes sociales dans le monde gréco-romain, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 147-235; B. LINKE, Von Verwandtschaft zum Staat, Stuttgart 1995, pp.72-74; cf. G. FRANCIOSI, Preesistenza della 'gens' e 'nomen' gentilicium', in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, I, a c. di G. Franciosi, Napoli 1984, pp. 3-33. Sull'importanza del fattore economico cf. Lex XII Tab., tab. V.4 (FIRA2, I , p. 38 = Ulp., fr. 26.1; cf. tab. V.7): si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento].

Es. in etrusco, "Marcus" si diceva "Marce". Il discendente dell’antenato mitico "Marce" sarebbe stato, quindi, "Marcena": questo nome si dice il “gentilizio”. I Romani copiarono il sistema appellativo etrusco e lo introdussero in quello nominale romano, originariamente bimembre (nome proprio e soprannome). Nacquero così i “tria nomina”, con l’aggiunta del gentilizio (adottato, all’origine, solo dai patrizi).

Anche i "clientes" entravano pienamente a far parte della "gens" del proprio "patronus", di cui prendevano il "nomen" gentile; infatti gli antichi collegavano etimologicamente "clientes" con "cluere", “essere chiamati”, perché i clienti portavano il nomen del patrono [Su questi argomenti: J. HEURGON, Classes et ordres chez les Etrusques, in Recherches sur les structures sociales dans l'antiquité classique. Coll. Caen 1969, Paris 1970, pp. 39-40. Sull'etimologia cfr. Plautus, Men. 575; in età moderna è stata proposta per la prima volta da W. CORSSEN, Über Aussprache, Vokalismus und Betonung der lateinischen Sprache, II, Leipzig 1870, p. 740, poi ribadita da CH. RENEL, Le sens du mot 'cliens', in Revue de Linguistique et de Philologie Comparée 39, 1903, pp. 213-225; e recentemente sostenuta dal LINKE, op. cit., pp. 88-89. L'ipotesi secondo cui cliens sarebbe un participio derivato dalla stessa radice del verbo "clino" (avanzata dal WACKERNAGEL, in Sitzber. Akad. Berl. 1918.2, p. 1216) non spiega l'assenza della consonante, n oppure v, (cfr. clinare, clivus...) sempre presente in tutti i derivati latini da tale radice. A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 19674, p. 127, non escludono una derivazione da una lingua straniera (etrusco?). Sulla definizione di gentiles cfr. Paulus, Fest. ep., p. 94 L. (da Cincio), secondo cui sono gentiles i discendenti da un medesimo genus che portano lo stesso nomen; Cicero, Top. 29 (da Scevola), che limita la definizione di gentiles ai nati da famiglia in cui nessuno era stato servo, e a coloro che non sono capite minuti. Da Gellius 5.13.4 si ricava che sia il padre che il patrono trasmettono il nomen].


La nozione di tribus

Per "tribus" si intendeva una suddivisione elettorale del "populus romanus". Le "gentes" erano fatte rientrare nelle tribù.

L' origine della parola, secondo alcuni, viene dal numerale "tres". Per i composti in -bho- pensiamo anche a "dubus" = “che si riferisce a due soluzioni”, da cui "dubius". Quindi, -bho- potrebbe avere una funzione attributiva.
All'origine, infatti, tre erano state le tribù romane: Ramnes, Tities e Luceres.
Il numero delle tribù era fisso, ma venne ampliato più volte. L'ultima per accogliere alcuni popoli a cui fu attribuita la cittadinanza romana.
Restò, in seguito, fisso e le zone dell’impero vennero tutte “attribuite”: i cittadini che vi risiedevano andavano automaticamente a far parte di una tribù romana.

Secondo altri il termine "tribus" sarebbe derivato dall'indoeuropeo antico *trb- = "casa" e sarebbe stato collegato, ad esempio, col celtico "treba".


Il contatto con popoli (in senso lato) stranieri


Le guerre e l’espansionismo romano posero immediatamente il problema del contatto con i popoli stranieri. I romani cercarono, così, di applicare alle società straniere la loro visione interna della società e, quando non vi riuscirono, cercarono forme di adattamento dei loro concetti a quelli altrui. Ciò comportò, spesso, anche l’utilizzo differente dal normale o improprio di termini romani in riferimento a realtà estranee.

- Dal primo contatto, coi Greci/Graii, emerse l’equazione nuova "civitas" = "polis".


- Invece, a seguito del contatto con i popoli parlanti lingue del gruppo osco-umbro-sabello-sannita, i Romani poterono osservare una divisione del territorio in singoli insediamenti, detti (in lingua osca) "pagi". Ogni singolo "pagus" era capo di un distretto rurale semindipendente.
Più "pagi" si raccoglievano poi, in una forma di strutturazione territoriale superiore, detta "touto" (per i Peligni, ad esempio, un touto era composto da 28 pagi: il nome ha una radice comune con il latino "tutela": la radide indoeuropea è *TEWE- = "faccio sviluppare, faccio sicuro, guardo"). I Romani non adottarono la struttura medesima.
Il termine osco pagi entrò nella lingua latina, per definire l’insediamento a capo di un distretto rurale.

- Al di sotto del "pagus", nei distretti rurali riorganizzati dai Romani nelle terre conquistate, in Italia almeno, fu il "vicus". Il significato antico di "vicus" è, secondo il precitato Giacomo Devoto, quello di “famiglie associate”. Il tema i.e. *WOIKO- è attestato nel greco oikos, nel sanscrito veça-, con altri ampliamenti nell’area germanica. Poi, nella forma atematica wik è presente anche nell’area indo-iranica e in quella baltica.

- Nel procedere con le conquiste, i romani incontrarono pure insediamenti fortificati stranieri, che definirono : “oppidum (s.)/oppida (pl)”. Di questi si è già trattato ottimamente in www.celtiberia.net. Si tratta sempre di insediamenti di una certa consistenza, ma di valore differente da terra a terra. Il termine pare cambiare di senso quando la descrizione sia fatta da un romano che veda la struttura insediativa oppure quando la parola sia la mera traduzione di una parola straniera (quale, ad esempio il celtico “dunum”).

Comunque sia, "oppidum" ha sempre anche un valore militare (il che non implica necessariamente mura costruite in pietra). Certo è che gli "oppida" non furono solo “macchine militari stabili” (nell’accezione dell’architetto “dromologo” francese Paul Virilio), sennò li si sarebbe definiti diversamente: arx (da un tema *ARK- = “contengo”), ad esempio, o "castrum".

Pare che gli "oppida" fossero “insediamenti principali”, sennò non si capirebbe perché, parlando dell’attuale Piemonte occidentale transpadano, a romanizzazione avvenuta, Plinio faccia riferimento solo a due oppida: "Segusium" e "Forum Vibii", contrapponendoli alla “colonia romana” di "(Iulia) Augusta Taurinorum", forse per accentuare le origini barbariche dei primi (nonostante la rifondazione romana). In "Segusium", che pure fu privo di mura in pietra per centinaia d’anni, esisteva un palazzo (fortificato) del "regulus" della dinastia Cozide.

Non è da escludersi che i santuari federali (del tipo "temenoi" all'aperto) si trovassero nelle vicinanze degli "oppida".

- Quando definivano i propri accampamenti militari, i Romani usavano, come si trattasse di singolare, la parola neutra plurale "castra-castrorum". Invece, utilizzavano il neutro singolare "castrum" per definire un insediamento stabile fortificato con mura di pietra ed originariamente “fondato da” ed “appartenente a” stranieri.

- mutò anche il concetto di “civitas”. Non che tutti gli stranieri non possedessero termini derivanti da *KEI-V nel senso di “insediamento patrio”: ad esempio, abbiamo attestata in Piemonte un toponimo Ceva, che parrebbe derivare da una forma antica *Keva, assolutamente pelatina. Non tutti i popoli stranieri vantavano, però, un mito fondativo o eroi iniziatori: gli scrittori Romani, però, generalmente, dimostrarono disprezzo verso questa forma di (pseudo)ignoranza.
Ciò dimostra che l'importanza che i Latini o, in genere, gli ellenizzati, attribuivano ai miti fondativi non fu condivisa da tutti i popoli antichi dell'Occidente europeo.

Però, a un certo punto della storia romana, il termine "civitas" andò a designare in latino quella che oggi definiremmo “una tribù indigena organizzata” ed “il relativo territorio”. Poi, ancora in seguito, pure “la sua trasformazione in unità amministrativa sotto il controllo romano”. La "civitas" costituì, ad un certo punto, un'unità territoriale, di carattere essenzialmente rurale e di dimensioni variabili, diretta dal capoluogo principale.

Tale capoluogo poteva essere un "castrum", un "castellum" (di dimensioni ridotte) o un "oppidum".

Il termine "civitas" si applicava, allora, anche alla "comunità politicamente organizzata presente su questo territorio". Tale struttura permise la graduale integrazione, attraverso l'amministrazione e l'urbanizzazione, delle popolazioni indigene nel sistema romano.

Trovo in un sito francese:

“Pour César, en Gaule, c'est le groupement des habitants d'une même région soumis à la même organisation.La civitas se divise en cantons ( pagi ), et ceux-ci en vici ( bourgs ). Le mot se traduit donc par Etat, clan, tribu ».

Naturalmente, "Stato", "clan" e "tribù" in senso attuale.

A processo ultimato, durante il basso Impero, il termine "civitas" assunse, in particolare in Gallia, il significato più generale di "città" (insediamento urbano di una certa dimensione): di qui, proprio derivano i termini cité/città/ciudad e, in senso leggermente differente, pure l’inglese city.


- Nel frattempo, con l'evoluzione della società romana e l'accorpamento di genti nuove in seno alla romanità, si estese pure il concetto di “gens”, fino a comprendere quello di "populus" (in senso lato) straniero.


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